La falsa coscienza linguistica di avvocati e magistrati

Un collega filosofo ha da poco postato questo messaggio, in Twitter e in Facebook: oratoria_avvocati.jpgbocassini.jpgEh sì: l’oratoria di avvocati e pubblici ministeri è quella che è (come dimenticare il profondo ritratto etnico-psicologico di Karima El Mahroug, nota come Ruby Rubacuori, fatta dalla PM milanese Ilda Bocassini, che ha definito così la ragazza marocchina: «Persona intelligente, furba, di quella furbizia proprio orientale delle sue origini», che «sfrutta intelligentemente a proprio vantaggio l’essere straniera e l’essere figlia di musulmani. In un contesto sociale, in una realtà dove l’integrazione non riesce ancora a inglobare due culture diverse assistiamo a fatti di una gravità inaudita rispetto a persone a ragazzi a giovani che vogliono non essere soffocati da una cultura di origine diversa da quella occidentale. Invece la nostra minore riesce a sfruttare questa situazione»).

Pure in quella occasione il collega filosofo si era stupito (ma non sono più riuscito a rintracciare il post). Ma anche il PM di “Un giorno in Pretura” induce nel filosofo, e nel linguista, e in qualsiasi cittadino attento, una forte e giustificata reazione stupefatta:

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Chissà se il collega filosofo riuscirebbe a sopravvivere alla lettura dei testi scritti dai magistrati, dagli avvocati, ma anche, e soprattutto direi, dai nostri colleghi professori di diritto.

silenzio.jpgUn avvocato, Ettore Randazzo, ha scritto un libro (che, ammetto, non ho letto), E forse una condanna al silenzio, in cui immagina che l’art. 341 ter c.p. preveda il reato di “oltraggio alla lingua italiana”, sanzionabile con una condanna al silenzio. Un reato che non esiste nel nostro ordinamento, per la fortuna dei cosiddetti “operatori del diritto” (i già citati magistrati, avvocati, professori di diritto). Pochi di loro sarebbero esenti dalla condanna.

Proprio per questo, ho trovato interessante, per il suo valore profondo di contrappasso, l’iniziativa della Camera penale di Udine che, nel 2012, ha indetto il premio letterario Legal Writers, per avvocati e magistrati. Un’iniziativa sottilmente e beffardamente ironica. Innanzi tutto perché richiede ai partecipanti di concorrere con testi, narrativi,  dalll’estensione massima di una cartella, 45 righe di 100 battute l’una, spazi inclusi: per una categoria che vede nell’amplificazione un valore, che nel lavoro produce testi innaturalmente lunghi, vere e proprie sbrodolature piene di inutili ridondanze, scrivere testi da una cartella è una sfida quasi sovrumana. E poi per il titolo, autoironico immagino per scelta consapevole: «La lingua inaccessibile, l’idioma indecretabile, la parola indelegabile, il corteggiamento cui non saprei resistere». Indecifrabile come la maggior parte dei testi scritti da giudici e avvocati.

aula_universitaria.jpgDa parte mia, ho appena concluso il corso di quest’anno, dedicato proprio alla scrittura dei giuristi. Forse le studentesse e gli studenti all’inizio erano perplessi: perché chi studia in un corso di Strategie di comunicazione si sarebbe dovuto occupare della scrittura giuridica? Quando mai si sarebbero trovati ad affrontare questo tipo di linguaggio? Ma alla fine si sono resi conto del motivo per cui avevo scelto questo tema: per imparare a usare con chiarezza ed efficacia la lingua scritta, è utile confrontarsi con la forma più patologica di lingua scritta che esista: quella che si usa nelle aule dei Dipartimenti di Giurisprudenza e in quelle dei Tribunali.

carofiglio.jpgDi grande interesse è stata anche la conclusione del corso, quando Gianrico Carofiglio è venuto a commentare il tentativo di riscrittura di una sentenza della Cassazione, che ci aveva impegnato per buona parte delle lezioni. Carofiglio ha ben delineato le ragioni per cui chi lavora nel campo del diritto scrive nel modo assurdo in cui scrive: pigrizia, narcisismo della scrittura, esercizio del potere. C’è però una cosa che continua a stupirmi: la irriducibile convinzione di molti addetti ai lavori che il loro modo di scrivere sia immodificabile, o addirittura sia una forma di alta prosa, un modello quasi esemplare.

Ho fatto, poi, gli esami, nel corso dei quali sono emerse interessanti spunti sulla concezione malata che, della loro lingua, hanno avvocati e magistrati.

toga-avvocato_48235.jpgCon Paola, pecora nera in una famiglia fatta tutta di giuristi (lei, invece, si è indirizzata verso le relazioni pubbliche e la comunicazione), abbiamo discusso della parola gravame che avevamo trovato nella sentenza. È una parola che, nel senso in cui viene usata nei testi giuridici, non appartiene all’italiano comune, e vale “azione di opposizione a una sentenza ritenuta ingiusta”. Durante il corso, gli studenti avevano imparato che i termini tecnici non si possono modificare, al più si possono spiegare (ma una sentenza non è certo un tipo di testo nel quale ha senso spiegare i termini tecnici: si danno per acquisiti, in quanto sono definiti nei testi di immediato riferimento, cioè  nei codici). Quindi, se devo riferirmi a un incidente probatorio (istituto previsto dall’art. 392 del codice di procedure penale), non posso far altro che usare tale espressione. Al massimo, posso prendermela con il legislatore: nella stesura e approvazione del codice di procedura penale era davvero il caso di accettare la proposta dei giuristi di varare tale espressione, nella quale il significato di incidente esula da quello comunemente condiviso nel linguaggio quotidiano? Tornando a gravame, la domanda è: si tratta di una parola come incidente probatorio? A noi era parso proprio di no, e abbiamo sostituito gravame, a seconda dei casi, con ricorso o impugnazione. Ma per i parenti di Paola, apriti cielo, no, non è possibile rinunciare a gravame, parola imposta dal codice.

codici.jpgAllora, da bravi filologi attenti ai testi, siamo andati a controllare i codici. E l’abbiamo fatto nel modo più sistematico possibile, utilizzando la preziosissima banca dati dell’Ittig, l’Istituto di Teoria e Tecniche dell’Informazione Giuridica del CNR, che ha uno splendido archivio interrogabile di testi giuridici del passato e del presente. Ebbene: gravame è attestato in 56 testi (tanto per fare un confronto, ricorso compare in 1399 testi, opposizione in 1064, impugnazione in 305. Quindi, forse, gravame non è proprio un termine, e comunque non un termine indispensabile. E difatti, la parola è usata sì nei codici, ma in quelli del passato. Nel codice vigente appare una sola volta, all’art. 670 (“Quando è proposta impugnazione od opposizione, il giudice dell’esecuzione, dopo aver provveduto sulla richiesta dell’interessato, trasmette gli atti al giudice di cognizione competente. La decisione del giudice dell’esecuzione non pregiudica quella del giudice dell’impugnazione o dell’opposizione, il quale, se ritiene ammissibile il gravame, sospende con ordinanza l’esecuzione che non sia già stata sospesa”). Ciò avviene per non ripetere per l’ennesima volta impugnazione e opposizione. Ma gravame non è, dunque, un termine necessario e insostituibile (tanto è vero che non compare nell’intero libro nono del codice, quello che tratta delle impugnazioni). L’argomentazione che bisogna usare gravame perché lo usano i codici, dunque, non ha alcun riscontro oggettivo. È un’autogiustificazione rassicurante, ma falsa, semplicemente falsa. L’uso di gravame deriva dalla prassi, dall’abitudine, da un certo godimento che i giuristi hanno nell’ammirare la loro prosa così strana e diversa, dalla pigrizia che non li spinge non solo a cambiare, ma nemmeno a chiedersi se le loro scelte hanno una giustificazione concreta. Certamente non è legato all’efficacia della comunicazione.

magistrato.jpgMaria Vittoria, invece, ha una cugina magistrata. La cugina ha trovato tre argomenti per non mettere in discussione il modo di scrivere suo e dei colleghi: il fatto che il diritto ha bisogno della sua tecnicità, il fatto che comunque l’imputato viene obbligatoriamente assistito da un avvocato, che ha il compito anche di fungere da mediatore linguistico con il suo cliente, il fatto che certe espressioni, come i latinismi, permettono una comunicazione più rapida. Obiezioni facili da smontare. Una premessa: nessuno mette in discussione il tecnicismo del diritto. Ma l’appellarsi al tecnisicsmo non può portare a rendere ammissibili tutte le schifezze linguistiche che infestano i trattati dei giuristi, i provvedimeni dei giudici, gli atti degli avvocati. Il vero tecnicismo non si tocca, tutto il resto sì. Alla cugina di Maria Vittoria mi permetterei di ricordare, poi, che quando emette le sentenze lo fa “In nome del popolo italiano” e che l’art. 1 della legge 15 Dicembre 1999, n. 482. “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche” stabilisce che “La lingua ufficiale della Repubblica è l’italiano”. Al convegno del 2002 “La lingua, la legge, la professione forense” è stato un illustre giurista (non ricordo quale, ma so che era un giurista) a chiedersi retoricamente se basta che la lingua di giudici e avvocati utilizzi la morfologia dell’italiano per considerarla davvero italiano e corrispondente alla prescrizione dell’art. 1 della legge 15 Dicembre 1999, n. 482. Anche se c’è l’avvocato-mediatore, non è compito obbligatorio di giudici e avvocati usare, sia pure decorosamente e riccamente, l’italiano comune, tranne quando il tecnicismo, quello vero, quello necessario, impone scelte diverse? E infine: davvero il diritto ha necessità del latinismo? Da umanista, dico tranquillamente e recisamente: no. Alla Corte di Giustizia europea, gli avvocati generali italiani sono stati da tempo invitati a evitare le citazioni latine, con la conseguenza che a poco a poco è sparita dall’uso della Corte una particolarità stilistica tradizionale del linguaggio giuridico italiano. Ma, evidentemente, senza danni per la funzionaltà dell’applicazione del diritto in ambito europeo.

Insomma, a fronte dell’esigenza del cittadino comune della Repubblica democratica italiana di poter leggere con una certa autonomia i prodotti di chi opera nel campo del diritto, i diretti interessati (senza distinzione di ruolo professionale) rispondono con speciose argomentazioni, che hanno una chiara funzione di autodifesa e autoconservazione, caratteristiche tipiche di una casta.

costituzione_magistrati.jpgE allora, magistrati, avvocati, colleghi dei dipartimenti di giurisprudenza, vi invito alla riflessione: perché scrivete in questo modo? Perché usando un linguaggio più piano e più vicino alla lingua comune il diritto perde la sua tecnicità o la sua efficienza? O perché si attenua il ruolo, cioè il potere, della vostra casta? Attenzione: come mi ha ricordato Thomas Carmelo, proprio nell’ultimo esame dell’appello, si tratta di una questione di democrazia.

La falsa coscienza linguistica di avvocati e magistratiultima modifica: 2013-06-02T13:33:00+02:00da cortmic
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