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In appoggio a Laura Boldrini

Qualche giorno fa, la presidente della Camera dei deputati, Laura Boldrini, ha inviato ai deputati (intendo con questa espressione non marcata i deputati e le deputate) una lettera per invitarli a usare formulazioni rispettose dell’identità di genere quando si fa riferimento specifico a donne che hanno la qualifica di deputate e di ministre, evitando di riferirsi a loro con titoli maschili.

È un tema che ho trattato spesso in questo blog. Anzi, ho dedicato a questo tema il mio primo post. Poi me ne sono occupato varie altre volte, per es. per apprezzare la decisione di Laura Boldrini di farsi chiamare la presidente della Camera. Appena insediata, Laura Boldrini ha comunicato una scelta che dovrebbe essere semplicemente la normale applicazione delle regole della lingua italiana per quel che riguarda l’attribuzione di genere per un referente umano. Ma, evidentemente, un’ideologia androcentrica, spesso fatta propria da molte donne in carriera, vede in questa applicazione di regole ordinarie un’infrazione alla grammatica (difendendo, a mio avviso, con presunti principi di fedeltà alla norma un conservatorismo linguistico, ma anche sociale).

La questione non è, però, pacifica, e spesso sono le donne stesse a non voler essere chiamate deputata, ministra, avvocata, ingegnera, rettrice.  Anche di questo ho scritto più volte in questo blog (l’ultima a proposito di avvocata). Non credevo, però, che la lettera della presidente della Camera avrebbe suscitato tante reazioni così ostili, nella maggior parte dei casi cattive, ma spesso anche stupide.

Riporto, a titolo di esempio, alcuni dei tweet di commento alla sua lettera:

Segnalo all’attenzione dei lettori soprattutto la genialità di Fabio, che confonde l’attribuzione di genere con la terminazione in -a di qualunque parola. Rubo il commento di un mio “amico” di Facebook a un’obiezione analoga: «non è la -a finale in questi casi a distinguere il genere, è che quei sostantivi sono storicamente maschili e conservati come tali. Altrimenti i nomi Andrea e Nicola dovrebbero essere automaticamente femminili e Clio e Saffo automaticamente maschili?».

Da parte mia, invece, concordo totalmente con le posizioni espresse dalla presidente della Camera. Come forma di appoggio alla sua posizione pubblico, e quindi faccio mia, la lettera scritta ai deputati (a dire il vero, solo la prima pagina, perché della continuazione non sono riuscito a trovare documentazione, neppure nel sito della Camera):

Come è noto, in questa legislatura si registra il numero più elevato di deputate, circa il 30%, così come si riscontra un significativo numero di donne che rivestono cariche e ruoli istituzionali prima ricoperti in via quasi esclusiva da uomini. Anche da ciò deriva in modo più evidente rispetto al passato l’esigenza dell’adeguamento del linguaggio parlamentare al ruolo istituzionale, sociale e professionale assunto dalle donne e al pieno rispetto delle identità di genere, a garanzia del principio di non discriminazione e a tutela della dignità della persona, in conformità a quanto previsto dagli articoli 2 e 3 della Costituzione.

Al di là delle diverse sensibilità individuali e politiche, credo sia importante da parte della presidenza della Camera richiamare l’attenzione sulle modalità di svolgimento dei dibattiti parlamentari, in Aula e presso gli altri organi parlamentari.

In questo senso, e tenuto conto anche di analoghe iniziative assunte in altri paesi, desidero segnalare l’opportunità che negli interventi svolti nel corso delle sedute dell’Assemblea e degli altri organi della Camera le cariche e i ruoli istituzionali siano richiamati nelle forme corrette, ossia secondo il genere proprio della persona cui essi si riferiscono.

Un’indicazione che va di pari passo con quanto segnalato alla Segreteria generale di Montecitorio, invitata a rispettare l’identità di genere quando nei resoconti parlamentari vengono indicati accanto ai nomi la carica e il ruolo ricoperti.

Da parte mia, peraltro, ho già rappresentato alla Segreteria Generale della Camera l’esigenza che nella pubblicazione dei resoconti parlamentari, nei casi in cui la carica o il ruolo ricoperto debbono essere riportati accanto ai nomi dei rispettivi titolari, tale richiamo sia effettuato in modo da garantire il rispetto dell’identità di genere. Ciò anche considerando che il ricorso al genere maschile per riferirsi a una carica o a un ruolo istituzionale ricoperti da una donna è stato ritenuto non corretto sul piano linguistico da numerosi studi, come la Guida alla redazione degli atti amministrativi proposta nel febbraio 2011 dall’Istituto di teoria e tecnica dell’informazione giuridica e dall’Accademia della Crusca.

Pubblico, anche, il commento a questa vicenda fatto, su Facebook, dalla collega Elena Pistolesi (con la quale, giusto un anno fa, ho partecipato a un dibattito su questo tema organizzato dalla CGIL scuola di Trieste, coordinato da Veronica Ujcich e al quale ha preso parte anche Marina Sbisà):

Alle 7:30 del mattino vedo in TV Franco di Mare che parla dei nomi di professione al femminile. Cita una collega di Udine che si occupa da anni di questioni di genere, Fabiana Fusco. Nel corso della giornata apprendo da FB che si è scatenato il putiferio sulla lettera di Boldrini. Approfondisco il tema e mi imbatto in una montagna di stupidaggini, anche documentate e grammaticalmente corrette, sull’uso di sindaca/sindaco, architetto/architetta ecc., finché non mi arrendo dinanzi a una testata che contrappone l’Accademia della Crusca all’uso di “la Presidente”. Il titolo recita: “La Crusca risponde ALLA Boldrini: giusto chimarla ‘il’ presidente”. Il testo riporta l’opinione del defunto Nencioni, presa non si dice da dove, che non contraddice proprio nessuno, se non altro perché frutto di altri tempi e cultura. Credo che l’Accademia dovrebbe prendere posizione contro l’uso strumentale che si fa del suo prestigioso nome. A parte questo, trovo stucchevoli le considerazioni estetiche del tipo “ma ti suona bene soldata, avvocata, ecc.”, così come chi insiste sulla compatibilità grammaticale perché la questione è banalmente politica. In Italia il dibattito e le scelte in merito sono sempre state elitarie, promosse dall’alto, da Sabatini a Boldrini. I risultati raggiunti trent’anni fa in altri paesi, in termini di diritti e di lingua insieme, non venivano dalle istituzioni, ma dal basso, perciò oggi in quei luoghi e in quelle lingue la parità linguistica è scontata. Voglio dire che si può forzare anche la grammatica, se le motivazioni sono sufficienti. Purtroppo, ripeto “purtroppo”, in Italia la questione è carsica ed esile, dunque destinata a ottenere scarsi risultati. Abbiamo perso un treno decenni fa. Riproporre oggi la questione negli stessi termini in cui la pose Sabatini (1987), con qualche correttivo, è fallimentare per due motivi: Sabatini è stata ignorata; nel frattempo (mi limito a un caso) sono stati tradotti anche in italiano gli scritti di Judith Butler, che avrebbero potuto ispirare, sempre dall’alto, qualche vincolo in più tra pensiero e -O/-A in fine di parola. Basta leggere la biografia di Alma Sabatini (wikipedia) e confrontarla con chi si limita alla grammatica per cogliere l’abisso. In tutto il dibattito manca la politica, come sollecitazione e come scopo, perciò siamo fermi a trent’anni fa.

È questo il modo, modesto, con cui questo blog e il suo autore intendono partecipare a questo otto marzo, dando direttamente voce alle donne, su un tema qui spesso dibattuto. E condividendo in pieno quanto loro affermano.

In appoggio a Laura Boldriniultima modifica: 2015-03-08T00:48:45+01:00da
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