Ma, non fraintendetemi, è solo una visione, del tutto lontana dalla realtà. Probabilmente, quella sera avevo mangiato troppo, e mi sono venuti dei pensieri assurdi. Non potrebbe certo succedere questo. Sarebbe come inventarsi che uno stimato filologo, o una stimata filologa, avesse scritto un articolo di commento ad alcuni dati sulla scarsa capacità degli studenti italiani di comprendere testi di media complessità. Aggiungiamoci, con uno sforzo titanico di fantasia, che tra le cause che, nel corso dell’ultimo cinquantennio, avrebbero portato a questo risultato, l’autore avesse inserito fenomeni che definire bizzarri sarebbe poco. Così, tanto per fantasticare, si potrebbe immaginare la pubblicazione, da parte di una casa editrice di partito, di una collana ideata e curata da un grande accademico nel nome di una educazione linguistica democratica, che proponesse libri di divulgazione scientifica in cui fosse usato solo un numero limitato di vocaboli. Pura immaginazione, la mia, è ovvio: un grande accademico così cretino non può essere esistito; e infatti non è esistito.
Ricapitoliamo la storia della collana. I «libri di base» sono 139 volumi di divulgazione scientifica, pubblicati tra il 1979 e il 1989 dagli Editori Riuniti, con un notevole successo editoriale (quantificabile in una media di circa diecimila copie vendute, ma con punte di molte decine di migliaia, come nel caso, ricorda Gensini – che mi perdonerà se lo copio brutalmente – della Guida all’alimentazione di Emanuele Djalma Vitali, dell’Infinito di Lucio Lombardo Radice o della Guida all’uso delle parole di Tullio De Mauro).
Bisogna fare attenzione alle parole: i libri dovevano essere redatti a partire dal vocabolario di base, non dovevano essere composti solo da parole appartenenti al vocabolario di base. Non è differenza da poco. Un conto è impedire che in un testo di divulgazione scientifica siano presenti termini tecnici, o anche solo parole adeguate al livello e al contenuto del testo, se non sono incluse nelle circa settemila parole italiane più frequenti e disponibili alla coscienza dei parlanti; un conto è richiedere che le parole non appartenenti al vocabolario di base fossero utilizzate solo dopo essere state spiegate con parole appartenenti al vocabolario di base o con parole già conosciute dal lettore, perché precedentemente introdotte e spiegate nel libro. Certo, non è facile scrivere così, ma è l’unico modo per non aggiungere alla barriera costituita dalla complessità delle nozioni da trasmettere la barriera costituita dalla complessità della lingua.
Se vogliamo allargare le conoscenze culturali e scientifiche di una popolazione di medio-bassa scolarizzazione, non possiamo dare per acquisita la conoscenza del lessico più elaborato o più tecnico, ma dobbiamo portarla ad appropriarsi di tale lessico. Così, accresciamo la cultura, ma contemporaneamente ampliamo la lingua. L’opzione di De Mauro è quella che ho appena indicato. Chi non è d’accordo (e le critiche ci sono state in passato – Ceserani, Arbasino – come ce ne sono oggi) dovrebbe superare il piagnisteo o la manipolazione polemica della proposta di De Mauro. Dovrebbe proporre una soluzione alternativa.
Stefano Gensini ricorda, rifacendosi alla testimonianza dello stesso De Mauro, che il rapporto con gli autori non era sempre tranquillo, proprio per le scelte linguistiche e stilistiche che la collana imponeva. A sua volta, «Repubblica» (questa volta in un articolo del 14 maggio 1997, dal titolo Quando Occhetto silurò i ‘libri di base’) ricorda quanto disse una volta proprio De Mauro: «Chi ha posto la questione del parlar chiaro è finito sul rogo o con la testa mozzata». Su De Mauro questa sorte si sta abbattendo post mortem.
Forse è vero che la rete è tutta un fiorire narcisistico di pseudoscrittori e di pseudosapienti e un serbatoio di testi in realtà costituiti da frasi altrui malamente comprese e peggio assemblate. Ma la rete è anche un formidabile serbatoio di informazioni, che possono soccorrere la nostra memoria, spesso carente (soprattutto in chi, come me, ha superato i sessant’anni), corroborando i ricordi, sempre selettivi e deformanti, con la forza della documentazione. A me è bastato così poco per far ritornare al loro posto i frammenti della mia irrazionale allucinazione: concretamente è bastato un click al sito giusto, quello di Laterza. Quindi, grazie, Stefano Gensini, per il tuo contributo nel sito Laterza. E grazie a Tullio De Mauro per questa splendida idea dei «Libri di base», che molti dovrebbero provare a leggere, prima di parlarne combinando malamente idee preconcette e vaghe, prive di fondamento, magari nella probabilmente sincera ancorché infondata convinzione di fornire un contributo proprio.
Sono apparsi altri commenti (imperniati, in genere, più sulla valutazione dei risultati delle indagini Invalsi, che sui «Libri di base»): quelli di Alberto Sobrero, nel sito del Giscel, di Nicola Grandi, sul BoLive, cioè il magazine on line dell’Università di Padova, di Mario Ambel, nella rivista del CIDI. Sono voci sostanzialmente simili, ma con interessanti differenziazioni. Interessanti anche le dettagliate e puntuali glosse di Massimiliano Manganelli. La lettura di questi articoli può permettere a chi è interessato alla stato della nostra lingua e al diffuso analfabetismo funzionale di farsi una propria idea, dopo aver letto il parere dei competenti.