parole

Una comune lingua europea o molte lingue europee comuni?

Roberto Sommella («giornalista economico, laureato in Scienze Politiche, esperto di finanza pubblica e di politiche europee, direttore delle Relazioni Esterne dell’Antitrust») ha pubblicato il 23 dicembre 2015, nel suo blog nel portale dell’«Huffington Post» un articolo dal titolo Una sola moneta, una sola lingua per unire l’Europa, riproposto, poi, nell’”Unità” del 28 dicembre 2015 , con il titolo Serve un lingua comune europea per parlare con una sola voce e nel «Corriere della sera» del  5 gennaio 2016, con il titolo L’unione europea ha bisogno di una vera lingua comune.

Ho trovato il titolo del «Corriere della sera» magnificamente ambiguo, per la plurivocità di significati che può avere l’espressione lingua comune: da una parte può indicare una lingua che coincide con quella dei parlanti comuni, dall’altra una lingua unica, comune a tutti i cittadini europei. Nei lanci attraverso Twitter, Sommella a volte ci indirizza verso la prima direzione, altre volte verso la seconda. E l’articolo non scioglie l’ambiguità, a cominciare dal sottotitolo «Bisogna andare oltre la Babele degli sherpa di Bruxelles», nel quale si collega la Babele del multilinguismo con il linguaggio tecnico ed esoterico degli sherpa, cioè dei funzionari che istruiscono le pratiche che vengono poi trattate negli incontri internazionali dei politici (in realtà, gli sherpa non sono campioni del multilinguismo, poiché interagiscono in un numero limitato di lingue, e ormai prevalentemente in inglese). Negli interventi più recenti, come quello su Tele Radio Più, Sommella fa prevalere senz’altro questa seconda interpretazione, proponendo lo spagnolo come lingua dell’Europa.

Riprendo, a beneficio dei lettori, i punti dell’articolo iniziale nei quali mi pare di leggere una critica all’oscurità del «gergo» delle istituzioni europee e quelli nei quali, invece, si punta alla necessità, per l’Europa, di parlare con una voce sola, e di avere, quindi, una lingua sola:

Contro l’oscurità dell’europeese:

Per una lingua unica dell’Unione:

Gli articoli non sono passati inosservati agli occhi di chi, nell’Unione Europea, lavora con impegno nella comunicazione e nella traduzione:

Nella posizione di Roberto Sommella ci sono, evidentemente, due piani, mescolati tra di loro in un modo confuso e privo di logica stringente, almeno per le mie capacità di comprensione: da una parte quello dell’incomprensibilità dei documenti dell’Unione Europea, dall’altro quello della scelta e poi della diffusione di una lingua unica tra le 24 attualmente in uso (o di una lingua terza, quale potrebbe essere l’artificiale esperanto).

Partiamo da quest’ultimo punto. Non occorre essere linguisti, basta essere osservatori attenti della storia dell’evoluzione delle lingue, per accorgersi che, se l’obiettivo di redigere testi comprensibili è un processo difficile, ma realizzabile a tavolino e con tempi governabili, quello dell’eventuale unificazione linguistica è un processo lungo, complesso e non realizzabile per decisione tecnico-politica, ma solo con un lento, faticoso, incerto, capillare processo di accettazione popolare che, ammesso che possa essere condiviso, potrà durare decenni, se non secoli e avrà costi enormi. Il punto essenziale è proprio questo: un elemento così fondamentale per la cultura di una comunità, come è la lingua, non è governabile per decisione politica. La lingua non è come la valuta, o la libera circolazione di merci e persone: è parte della vita di un singolo e della storia della sua comunità e non si può cambiare dall’oggi al domani, per decisione dall’alto, anche solo per giungere a una situazione di bilinguismo.

Quello di individuare una lingua comune è un’utopia intellettualmente povera, che richiama il principio romantico, che credevo ampiamente superato, della nazione «una d’arme, di lingua, d’altare, / di memorie, di sangue e di cor». Ma soprattutto è una prospettiva fattualmente irrealizzabile, se non, eventualmente, in tempi biblici. Si tratterebbe di un processo epocale, mai visto finora dall’umanità: 500 milioni di cittadini, che adesso parlano lingue di lunga tradizione, appartenenti ai più diversi ceppi linguistici (lingue romanze, germaniche, slave, ugro-finniche, celtiche, baltiche, elleniche), dovrebbero convergere sul possesso pieno di un’unica lingua. Il ben più facile processo di dissolvimento del latino (è sempre più facile distruggere che creare) è durato secoli. Fino a quando non ci sarà un dominio pieno da parte di tutti di una eventuale lingua comune, siamo al punto di partenza, o al massimo nelle stesse condizioni dell’inglese veicolare che oggi si sta sempre più affermando: una lingua franca, generica e inadeguata ai bisogni comunicativi della complessa società europea.

Certamente, per guardare al futuro può essere utile costruire un’utopia: se non avessimo al miraggio della pace mondiale, difficilmente ridurremmo fin d’ora le guerre. Ma se vogliamo ottenere risultati subito non possiamo chiudere gli occhi davanti alla realtà. La realtà ci dice due cose: che l’obiettivo dell’unica lingua europea, ammesso che sia un obiettivo da perseguire, è lontanissimo nel tempo, e che se mai si dovesse ipotizzare una comune lingua europea, non si può non pensare all’inglese che allo stato attuale è la lingua dominata, a gradi diversi d’imperfezione, dal maggior numero di persone in Europa (un argomento che dovrebbe essere molto caro a chi si pone il problema di non dissipare troppe risorse).

Il problema da affrontare in maniera realistica non è, allora, la scelta di una lingua comune per gli oltre 500 milioni di cittadini dell’Unione. Ancora per lungo tempo, se non per sempre, la realtà linguistica dell’Europa sarà il multilinguismo e, per quel che mi riguarda, mi pare una prospettiva del tutto auspicabile, nel rispetto delle radici policentriche dell’Europa. L’esempio degli Stati Uniti non può valere, sia perché l’attuale popolazione del Paese è fin dall’inizio frutto di ondate migratorie, sia perché l’imposizione dell’inglese ha comportato la scomparsa delle lingue autoctone.

Il multilinguismo implica, però, da una parte un armonico sviluppo del lessico istituzionale in tutte le 24 lingue dell’Unione, dall’altra un’enorme attività di traduzione dei testi istituzionali nelle 24 lingue.

Da questo punto di vista, i traduttori delle istituzioni europee, ma anche quelli delle istituzioni nazionali, fanno un gigantesco lavoro per rendere chiari a tutti i cittadini europei, nella loro lingua materna, attualmente posseduta, le decisioni degli organismi europei. A volte ci riescono bene, a volte meno: non solo perché, come tutte le attività umane, anche la traduzione è sempre perfettibile, ma anche perché gran parte della chiarezza dei testi tradotti dipende dalla chiarezza del testo di partenza. Troppe volte, poi, il loro lavoro è vanificato dai media: accade quando i traduttori propongono un corrispondente italiano, a volte felice a volte no, ma giornali, radio, tv continuano a usare acriticamente l’anglismo. Licia Corbolante cita alcuni casi, e alla vicenda di hotspot abbiamo già accennato su questo blog.

Non sono il multilinguismo e la traduzione a ostacolare la diffusione delle idee, ma la complessità insita nella creazione di un ordinamento giuridico diverso da ognuno degli ordinamenti nazionali; una complessità che riguarda sia il piano dei concetti, sia quello dei dei termini che servono a rappresentare quei concetti. Da questo punto di vista, gli Stati membri dell’Unione (non dimentichiamolo: sono loro che ne decidono le politiche) e le istituzioni dell’Unione  dovrebbero in effetti spiegare meglio ai propri cittadini le decisioni che prendono tutti assieme. Serve sì una “lingua comune”, nel senso di una lingua (italiana, inglese, francese, tedesca, spagnola, polacca …) che risponda a criteri comuni di semplicità e comprensibilità. Se i documenti che regolano la vita dei cittadini dell’Unione Europea saranno scritti nella maniera più chiara, e semplice, possibile, pur nella complessità dei concetti da esprimere, sarà più facile ai traduttori rendere in maniera efficace quei documenti nelle 24 lingue dell’Unione Europea.

Da parte sua, il Dipartimento italiano della Direzione generale della traduzione ha attivato una rete di condivisione e consulenza (REI, “Rete per l’eccellenza dell’italiano istituzionale”), di cui si sono celebrati da poco i dieci anni. L’obiettivo è quello di trovare le soluzioni migliori per rendere efficaci e comprensibili in italiano i testi redatti sia nelle sedi plurilingui sia in quelle nazionali monolingui. I principi sono chiari  (sono stati sintetizzati nel Manifesto per un italiano istituzionale di qualità), la loro realizzazione non è né facile né immediata, perché coinvolge chi (traduttori, redattori, linguisti) hanno ben presenti gli obiettivi di chiarezza e semplicità, ma anche quanti concepiscono politiche, norme, direttive, anche molto complesse: non sempre la chiarezza della lingua è uno dei parametri prioritari utilizzati per la stesura dei testi istituzionali.

Una comune lingua europea o molte lingue europee comuni?ultima modifica: 2016-01-16T11:06:38+01:00da
Reposta per primo quest’articolo