Cosa ci insegna il referendum in Scozia

Sono certo di deludere chi è capitato in questa pagina credendo di leggere un commento politico sull’esito del referendum in Scozia e sulle sue conseguenze nel Regno Unito e in tutta Europa. Ma un ragionamento di questo tipo sarebbe fuori luogo in un blog dedicato alle parole.

L’insegnamento che, dal punto di vista di questo blog, possiamo trarre in Italia riguarda la formulazione del quesito, di una semplicità assoluta: «Should Scotland be an independent country?»referendum-scozia-scheda-2

In realtà, una prima versione del quesito era leggermente più complessa, e meno neutrale: «Do you agree that Scotland should be an independent country?».

referendum-scozia-scheda-1La parte iniziale è stata poi tolta, perché poteva sembrare che gli elettori dovessero esprimere il loro accordo (o disaccordo) a una decisione già presa. Il risultato finale è stato ottimo: un quesito chiaro, neutrale, essenziale.

Del resto, è abitudine nel Regno Unito sottoporre all’elettorato dei quesiti chiari e brevi:

referendum-parlamento-ingleseLa stessa abitudine l’ha la Svizzera:

referendum-svizzeraNon possiamo dire altrettanto dell’Italia, dove i referendum possono essere costituiti da quesiti lunghi, materialmente illeggibili, concettualmente poco comprensibili:

referendum-nucleare-scheda-grigia_originallucidiL’osservazione è già stata fatta nel blog di Beppe Grillo, in un intervento di Stefano Lucidi, capogruppo del Movimento Cinque Stelle nella Commissione Affari Esteri del Senato. Per una volta, mi trovo completamente d’accordo con le affermazioni di un esponente del Movimento Cinque Stelle:

Il quesito posto agli elettori che saranno tutti i residenti, scozzesi e non, a partire dai sedici anni di età sarà il seguente: “La Scozia dovrebbe essere un Paese indipendente?”. Il testo è semplice, chiaro e accessibile a tutta la popolazione. Si tratta di un referendum “propositivo” a tutti gli effetti e, indipendentemente dal risultato, è possibile sostenere che costituisca un importantissimo esempio di democrazia diretta.
In Italia la formulazione dei quesiti referendari li rende spesso incomprensibili a tutti i cittadini. E quindi potenzialmente antidemocratici. A uno scozzese si sarebbe chiesto: Vuoi che l’acqua, bene comune, sia pubblica? In Italia invece nel 2001 l’elettore trovava sulla scheda elettorale la seguente domanda:
“Volete voi che sia abrogato l’art. 23-bis (Servizi pubblici locali di rilevanza economica) del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 recante «Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria», convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, come modificato dall’art. 30, comma 26, della legge 23 luglio 2009, n. 99, recante «Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia», e dall’art. 15 del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135, recante «Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della corte di giustizia della Comunità europea», convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2009, n. 166, nel testo risultante a seguito della sentenza n. 325 del 2010 della Corte costituzionale?”.

Ci si può chiedere se lo stile delle nostre schede elettorali derivi da un’ineliminabile caratteristica culturale dell’Italia, schiava di una tradizione retorica, formalistica, che punta più all’amplificazione che alla sintesi. Non è così. La scheda del referendum del 1946, che ha sancito la nascita della Repubblica in Italia, era esemplare nella sua semplicità e nell’abbinamento tra testo e immagine (questione essenziale in anni in cui l’analfabetismo era molto diffuso):

referendum_1946Ecco, dunque, cosa possiamo imparare dal referendum scozzese, probabilmente il referendum straniero che ha avuto il maggiore impatto sull’opinione pubblica italiana: possiamo modificare, profondamente, il modo con cui sottoponiamo all’elettorato i quesiti referendari, ritornando alle nostre origini.

Ma dovrebbero prendere esempio dalla Scozia anche i gruppi separatisti veneti, che nel 2013 hanno organizzato quello che loro stessi hanno definito “plebiscito“:

referendum-veneto

L’hanno fatto in modo autogestito, e con i mezzi più avanzati di cui oggi disponiamo, cioè in forma digitale (provocando, a dire il vero, fortissimi e fondatissimi dubbi sull’attendibilità dei risultati). Ma non sono riusciti ad evitare di essere intimamente italiani nel modo con cui hanno presentato il quesito. La ridondante aggettivazione della repubblica da loro vagheggiata («federale, indipendente e sovrana») tradisce un impianto retorico del tutto italiano. La prossima volta, imparino dalla Scozia!

Aggiornamento. Hanno trattato il tema della semplicità del quesito il sito satirico Spinoza e, più estesamente, Michele Serra:

amaca

Cosa ci insegna il referendum in Scoziaultima modifica: 2014-09-21T12:22:42+02:00da cortmic
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