L’episodio, in sé, non è di interesse di questo blog. Certo, ci si può chiedere quanto potrà sopravvivere il nostro Paese a una produzione legislativa idiota nella drasticità delle sue previsioni, soprattutto se i controllori devono applicarla con indefettibile ottusità e senza temperarla con il buon senso (anche se poi qualche volta ci pensano i giudici a portare norme e applicazioni alla ragionevolezza; lo dimostra, per fare un esempio, una sentenza del giudice del lavoro di Ravenna, il quale, a proposito di altre questioni, ha scritto, a dire il vero con prosa piuttosto contorta: «l’ottusa severità nell’applicazione della normativa sanzionatoria rischia di rimanere sulla carta e si scontra da sempre con un diffuso tasso di ineffettività della sanzione…; molto più efficace risulta invece un equilibrato raccordo tra le norme, che sia in grado di instaurare un circolo virtuoso a livello applicativo che incentivi l’emersione e la regolarizzazione dei rapporti irregolari, anche attraverso tecniche normative premiali”). Ma si tratta di considerazioni solo indirettamente linguistiche.
L’episodio di Roncadello ha però un preciso, e imbarazzante, risvolto linguistico. L’artigiano ha scritto un’accorata lettera alla dirigente della Direzione Territoriale del Lavoro di Cremona, Silvana Catalano. Cosa ha scritto? Parole che tutti noi, persone normali, avremmo potuto scrivere: «Tutto questo mi ha sconvolto come cittadino italiano e come imprenditore, non mi vergogno di dirle che non dormo la notte per aver subito una tale ingiustizia (…). Sono intenzionato a chiudere la mia attività entro la fine dell’anno».
Posso capire tante cose: il codice di comportamento dei pubblici dipendenti non impone più di scrivere chiaro (ma magari la lettera è stata scritta prima del 19 giugno, e allora vigeva il codice precedente che questo obbligo lo imponeva); la dirigente, come ognuno può apprendere dal suo curriculum, è laureata in Giurisprudenza, una corso di laurea che diseduca i ventenni, distogliendoli, in maniera irreparabile, dall’uso di una lingua chiara perché semplice e comune; la dottoressa Catalano, infine, ha un passato da segretaria comunale che non l’ha certo aiutata a redimersi dalle brutte abitudini linguistiche contratte durante gli studi.
Passando, poi, dall’incomprensibilità ai difetti stilistici, la dottoressa avrebbe fatto meglio a lasciare ai testi in cui ha studiato le doglianze e a usare il più comune lamentele. E non era proprio possibile evitare quell’orribile aggettivo sanzionatorio (che abbiamo trovato anche nella sentenza del giudice di Ravenna: altra parola che piace proprio tanto a burocrati e giuristi)? Se avesse usato un giro di parole più largo e disteso la firmataria della lettera sarebbe apparsa umana e non un semplice ingranaggio della mal funzionante macchina amministrativa italiana.
La questione fondamentale è proprio questa. L’artigiano ha scritto una lettera umanissima. La Repubblica, rappresentata dalla dirigente dell’Ispettorato del lavoro di Cremona, ha risposto con una prosa inumana. Qualsiasi sia il codice di comportamento vigente al momento della stesura della lettera, credo che la dott. Catalano sia riuscita a fare contemporaneamente un gravissimo torto all’uomo che le aveva scritto con il cuore e un pessimo servizio alla lingua italiana, che è la lingua ufficiale della Repubblica (legge n. 482 del 15 dicembre 1999 “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”, art. 1).