Fuori l’italiano dall’università?

Accademia della CruscaFuori l’italiano dall’università? è il titolo di un volume a più voci (gli autori sono un centinaio) promosso dall’Accademia della Crusca su un tema che da qualche tempo anima vivaci dibattiti: la decisione di alcune università, in primis il Politecnico di Milano, di erogare la propria offerta didattica, in parte o tutta, in inglese. L’editore è Laterza. Il libro è uscito ieri, in occasione del Convegno della Associazione di Storia della Lingua Italiana che si è tenuto a Padova (e a Venezia) ed è già disponibile in tutti i siti di acquisti librari on line.

Per quel che mi riguarda, mi sono occupato dell’argomento nel Piccolo di Trieste e nel Bo, il giornale on-line dell’Università di Padova e, indirettamente, nel post del 7 ottobre. Non è proprio il caso che ripeta ancora le mie considerazioni.

Mi limito a riportare due citazioni. La prima, presente anche nel libro della Crusca, è del linguista tedesco Harald Weinrich.

Harald Weinrich


È tratta da un libro di dieci anni fa (L’Accademia della Crusca per Giovanni Nencioni): non ha, quindi, direttamente a che fare con l’insegnamento in inglese nelle università. Ma proprio per questo è utile riproporla qui:
“Ma l’inglese, almeno, non è una lingua che si apprende in modo economico, sia in termini di denaro, sia – cosa più importante – in termini di tempo di vita? È evidente che essa ha in tutto il mondo un grande valore di scambio perché con l’inglese si può fare di più. Ma anche questo calcolo purtroppo non torna del tutto, come sembra a prima vista. In effetti la lingua inglese dà l’impressione di essere una lingua altamente economica, cioè di dare, più di ogni altra lingua, il massimo profitto col minimo sforzo, dal momento che rappresenta una monocultura globale. Ma nel caso delle monoculture, economia ed ecologia non coincidono. Se vogliamo investire non solo del denaro ma anche del tempo di vita nel plurilinguismo, non si devono trascurare gli effetti collaterali prodotti da quasi tutte le monoculture. Come dimostrano i casi della canna da zucchero, del tabacco e del caffè, per un certo periodo le monoculture hanno dei costi di produzione abbastanza bassi, ma alla lunga provocano ogni sorta di disturbi e danni in misura maggiore rispetto alle culture diversificate, che invece nel lungo periodo sono più vantaggiose dal punto di vista economico. Questa fondamentale regola ecologica vale anche per le culture linguistiche. In una monocultura anglofona, nella quale le informazioni importanti si diffondono con uguale velocità in tutto il mondo nella maniera più rapida, si possono diffondere con uguale facilità anche le più colossali stupidaggini […]. Se si vogliono limitare gli effetti dannosi, si deve seguire anche in questo caso la regola d’oro di tutti i consulenti finanziari: diversificare! Questo è un buon consiglio dal punto di vista europeo, poiché proprio attraverso la sua cultura così varia e diversificata, l’Europa è diventata nel corso della storia il continente del logos: sarebbe fatale svendere con leggerezza questo pregio per un pugnello di vantaggi economici che giovano non si sa a chi”.

annamaria testaLa seconda citazione è di Annamaria Testa, la nota pubblicitaria, ed è tratta dal suo contributo Inglese all’università: tra sogno e nightmare, nel volume appena pubblicato da Laterza (ma il testo si trova anche nel blog di Annamaria Testa nuovo e utile.

“Sul tema dell’inglese obbligatorio vorrei anche porre alcuni quesiti di carattere più generale:
– perché in un’università sì globale e cosmopolita, ma italiana, né l’italiano né nessuna lingua oltre all’inglese può avere diritto di cittadinanza?
– perché si considera prioritaria una formazione in inglese rispetto alla miglior formazione possibile, in qualsiasi lingua sia (e meglio se in più di una)?
– perché si ritiene che uno studente straniero sia per forza più attratto da una laurea specialistica in Italia tutta e solo in inglese?
E non, ad esempio, dalla scelta più ampia tra il frequentare corsi in inglese e corsi in altre lingue, italiano compreso?
– che c’entrano l’attrattività dell’Italia e dello stile di vita italiano con la scelta di una singola università di parlare d’obbligo solo inglese? Studenti stranieri che hanno studiato in Italia, e anche imparato un po’ di italiano, non potrebbero essere ottimi ambasciatori dell’Italia nei Paesi d’origine, e nel mondo?
– perché un bravo laureato italiano che vuole restare in Italia dovrebbe trovarsi orfano dei termini e delle categorie necessarie a ragionare anche nella sua lingua madre delle materie di cui più dovrebbe essere competente?
– perché uno studente davvero aperto al mondo e desideroso di andare a confrontarsi con la cultura, i ritmi, la vita e le opportunità di un Paese straniero dovrebbe cambiare idea solo in seguito all’offerta di un insegnamento inglese in Italia?
– e perché mai, se si vuole sul serio integrare l’apprendimento dell’inglese nell’offerta educativa nazionale, si comincia dal fondo, dagli insegnamenti più complessi, da un’età in cui imparare bene una lingua straniera tanto da usarla correntemente è comunque meno naturale, invece che dalla scuola primaria?
Infine: ogni lingua ha in sé processi mentali, storia, cultura, memoria, visioni peculiari. Molti studiosi, e tra questi Teresa Amabile della Harvard Business School, ci dicono che la creatività, intesa come capacità di progettare qualcosa di nuovo che sia socialmente utile, cresce con la varietà delle esperienze e dei punti di vista. Gruppi creativi risultano tanto più fertili quanto più la loro composizione è varia per sesso, età, genere, etnia, provenienza e cultura”.

Fuori l’italiano dall’università?ultima modifica: 2012-12-01T10:20:00+01:00da cortmic
Reposta per primo quest’articolo