Spero che nessuno dei lettori di questo blog creda davvero che Laura Boldrini volesse essere chiamata presidenta. È una leggenda metropolitana diffusa prevalentemente dalla stampa di destra, che ha attribuito questa incredibile sciocchezza persino all’Accademia della Crusca (per esempio nel titolo, ma non nel testo, di un articolo del 2016):
La genesi è chiara: all’inizio, già nel 2013, la forma presidenta è stata diffusa, come invenzione prima di tutto del sito Dagospia, per irridere la Presidente della Camera, che voleva, giustamente, essere chiamata proprio così, «la Presidente». Ben presto, il falso femminile è stato ripreso dalla stampa di destra e usato massicciamente, sempre con intento denigratorio nei confronti dell’allora presidente della Camera. Ne troviamo traccia, per esempio, nel «Giornale» del 30 settembre 2013.
Con Giuseppe Conte è successo la stessa cosa, anche se a parti inverse. I giornali contrari al governo che, forse, si sta costituendo, a partire da «Repubblica», hanno diffuso l’idea che il Presidente del Consiglio incaricato avesse inserito nel suo curriculum un mai acquisito diploma di un corso di perfezionamento alla New York University. Il corrispondente dall’Italia del New York Times, Jason Horowitz ha anche assunto informazioni all’Università americana, ponendo una domanda precisa, ma che partiva da un presupposto sbagliato, alla quale l’Università americana ha risposto nell’unico modo possibile: «A person by this name does not show up in any of our records as either a student or faculty member» («Una persona con questo nome non compare nei nostri archivi come studente o docente»). Peccato che Giuseppe Conte non avesse mai scritto di aver frequentato corsi di perfezionamento in quella Università, e ancor meno di avervi insegnato.
Nel curriculum depositato alla Camera dei Deputati, Giuseppe Conte aveva scritto una cosa che non doveva dare adito a dubbi: «dall’anno 2008 all’anno 2012 ha soggiornato, ogni estate e per periodi non inferioria un mese, presso la New York University, per perfezionare e aggiornare i suoi studi». Per chi vive nell’Università, il significato è chiarissimo: per alcuni anni, ogni estate (cioè quando il professore era libero dagli obblighi didattici italiani), Conte se ne è andato a New York a studiare in quella università, verosimilmente ben fornita di strumenti di lavoro, e a confrontarsi con colleghi che lavorano lì. Una versione che, dopo che è scoppiato il caso, ha iniziato ad avere conferme.
Ma se Giuseppe Conte non sa scrivere bene (nel curriculum depositato alla Camera per ben due volte scrive di aver riportato «l’unanime giudizio favorevole di tutti i membri della Commissione di concorso», come se ci potesse ssere il giudizio unanime di una parte della Commissione»); ma a lora volta i giornalisti non sanno leggere bene i documenti (o, quando gli fa comodo, non vogliono leggerli bene): bastava confrontare il curriculum ambiguo con quello più chiaro, per sapere che stavano montando una polemica priva di fondamento.
La sensazione che ne ho tratto è che chi ha fatto scoppiare il presunto scandalo si sia comportato più che da giornalista che sa leggere, confrontare e verificare le fonti, da comunicatore. Come comunicatore ha avuto pieno successo: su Giuseppe Conte peserà sempre il sospetto di essere un manipolatore di documenti, mentre, al massimo, si tratta di un narcisista esibizionista, che segnala in un curriculum anche esperienze informali e di secondo piano che aggiungono poco alla propria figura di studioso. Pazienza che su questa falsa notizia affondi i suoi attacchi il solito «Giornale», il quale, abbiamo già visto, non brilla per esattezza filologica:
Ma persino un giornalista esperto come Gianni Riotta continua a definire «farlocco» un curriculum che in realtà non dice nulla di falso (almeno per il punto più dibattutto, quello relativo alla New York University):
Così come filogrillina è stata la disattenzione verso i particolari: ricordo il titolo con cui «Repubblica», nella sua home page, per alcune ore ha linkato una valutazione tecnica del curriculum di Giuseppe Rossi, invece che di Giuseppe Conte (all’insensatezza di questa valutazione dedicherò un altro post, perché questo ormai è molto lungo); oppure la critica alla denominazione International Kultur Institut di Vienna, presentata da Conti in una forma che non è né inglese né tedesca, ma che viene corretta, da più fonti, nell’altrettanto sbagliato Internationales Kulturinstitute, con una e finale di troppo: peccato veniale, se non fosse che è stato usato, più volte, in contesti nei quali si sbeffeggiava l’errore del professore: nel solito «Giornale», ma anche nel «Sole 24 ore» e, ironia della sorte (o forza del lapsus) anche nel tweet di una giornalista che vive a Monaco: