So di appartenere a una categoria da alcuni osannata, da altri osteggiata: quella delle persone che, anche nel web, si occupano della lingua italiana, ne osservano gli usi pubblici (sia quelli scorretti, sia quelli corretti), criticano le produzioni
Le critiche che ci vengono rivolte sono di due tipi. La prima proviene da chi non condivide il merito delle critiche, perché troppo permissive, o perché troppo puristiche, o perché brutte, o perché leziose. Potrei cavarmela dicendo che, come ogni italiano si sente commissario tecnico della nazionale di calcio, così ogni italiano si sente accademico dela Crusca. In realtà, la questione è più complessa, dal momento che le lingue non vengono regolate dagli esperti, ma dall’intera comunità linguistica, e ogni parlante, con la sua prospettiva soggettiva, contribuisce a formare la norma.
Il secondo tipo di critiche proviene da chi giudica ozioso discutere di forma linguistica, perché, tanto, l’informazione passa egualmente, anche in presenza di scorrettezze o inappropriatezze linguistiche; o perché ci sono cose ben più importanti da affrontare, cose che riguardano la sostanza delle cose e non il modo con cui vengono comunicate. Ma siamo sicuri che solo la sostanza sia importante, e la forma sia solo un di più? O la forma è il modo per dare concretezza alla sostanza, attribuendole chiarezza, credibilità, efficacia? Insomma, la forma non è anche sostanza?
Tutto questo, che certamente può essere oggetto di discussione e controversia, è ancora più valido quando si propugnano posizioni impopolari, controcorrente, estreme.
Proprio per tutto questo, il ragionamento di chi propone tesi inusuali dovrebbe essere impeccabile sia dal punto di vista logico, sia da quello della presentazione formale.
Di mio aggiungerò qualcos’altro. Non ho proprio capito il senso della frase «Il niet risultato è stato montare, di aspettative, l’esercito scolastico»; non ho capito neppure la funzione grammaticale delle parole usate (in particolare quella di niet, e di riflesso di risultato); e al rilievo sintattico di Patota, potrei aggiungere una critica alla punteggiatura, piuttosto – diciamo così – creativa. Più in generale, posso fare mio il giudizio di altri commentatori dell’articolo di Guandalini: «Uhm, poveri gli studenti di un docente che riesce a scrivere un articolo così lungo senza dire nulla che sia né pars construens né pars destruens…»; e ancora «Quando ho cominciato a leggere il suo contributo, caro professore a contratto, mi sono detta che le critiche sono sempre utili come elemento costruttivo del dialogo, e dunque ero curiosa e ben disposta ad ascoltare e fare tesoro delle sue. Lei, purtroppo, è solo distruttivo e inconcludente, dunque la sua analisi, seppur legittima, non serve a niente». Segnalo a un altro commentatore che il Guandalini è economista e giornalista, come si autoqualifica, ma non professore universitario (ha solo avuto qualche docenza a contratto, mai, se ho letto bene il suo curriculum, in università pubbliche e in corsi di laurea triennali o magistrali).
Il mio collega Patota (lui sì professore universitario) l’ha presa con filosofia. La sua conclusione è questa: «una cosa buona, però, la devo dire: leggere di prima mattina un articolo critico nei confronti della scuola scritto in un italiano del genere produce un effetto esilarante che mette di buon umore».
La mia reazione è meno lieve. Io mi sono molto irritato: prima di tutto per il contrasto, stridentissimo, tra la forza della tesi propugnata e la debolezza della lingua utilizzata. E poi per il fatto che Maurizio Guandalini non è un novellino, un giornalista magari rampante, ma alle prime armi. Leggo nella sua biografia che è «tra i più qualificati analisti indipendenti del sistema finanziario globale. Docente, organizzatore di eventi internazionali per la Fondazione ISTUD, giornalista. Ha scritto per l’Unità, è stato