Bilinguismo a scuola o deprivazione verbale?

flagukHo già espresso a suo tempo (sulla stampa e in questo blog) il mio parere sullo sviluppo degli insegnamenti in inglese nelle università: ne capisco le ragioni di marketing (attrarre studenti di altre nazionalità) e capisco l’importanza che un laureato italiano abbia una buona conoscenza dell’inglese. Ma mi pare altrettanto importante che un laureato, anche di materie tecnico-scientifiche, abbia un’ottima e avanzata conoscenza dell’italiano, dal momento che il lavoro di molti di loro non sarà quello di collaborare con inglesi, tedeschi, francesi, arabi, cinesi a Londra, New York, Parigi, Berlino o altrove, ma di lavorare in Italia per conto di normali cittadini italiani, con i quali colloquiare e contrattare. Già ora, con i corsi prevalentemente in italiano, questo obiettivo è raggiunto solo parzialmente. Cosa accadrà a chi avrà seguito corsi tenuti interamente in inglese?

Sono, poi, preoccupato non tanto della qualità dell’inglese dei docenti (che comunque influisce direttamente sull’efficacia dell’insegnamento), quanto dell’artificialità dell’interazione in classe in una lingua diversa da quella della maggior parte dei presenti: è difficile, anche al Politecnico, antesignano delle lezioni tutte in inglese, che le classi siano formate in maggioranza da parlanti inglesi madrelingua. Rarissimi, poi, saranno i docenti che hanno l’inglese come lingua materna. Il rischio che ne consegue è che risulti appiattita la profondità argomentativa dello scambio educativo e che le capacità espositive, argomentative e dialettiche degli studenti si atrofizzino.

politecnicoIn attesa che la Corte costituzionale decida in merito alla liceità della decisione del Politecnico di Milano di tenere tutti i suoi corsi magistrali in inglese e in attesa di avere chiari riscontri sulle abilità di comprensione e di produzione dei testi raggiunte da studenti formati in una lingua diversa dalla loro lingua materna (per esempio attraverso valutazioni come le prove teco organizzate in Italia dall’ANVUR), le Università stanno aumentando, con politiche diverse, i corsi offerti in inglese.

esterno_tito_livioMa anche le scuole superiori stanno sviluppando singoli corsi in inglese. Pure in quest’ambito, Milano è all’avanguardia. Uno storico liceo classico della città, il «Tito Livio», si sta preparando a tenere tutti i suoi corsi in inglese, almeno in alcune sezioni. E dichiaratamente il modello è il Politecnico di Milano: «Abbiamo capito che il futuro è lì  –  spiega la preside del liceo Amanda Ferrario  –  per questo abbiamo deciso di fare una scommessa: importare il loro esempio in una scuola superiore, per la prima volta pubblica e non privata» (cito da «Repubblica»).

Le notizie, che traggo dalla stampa, non sono chiarissime. Si parla, ad esempio, di «liceo bilingue», ma poi si dice che «tutte le materie  –  dal latino alla matematica  –  vengono spiegate in lingua inglese». Ma se è così, è monolinguismo inglese, non bilinguismo (forse l’idea di liceo bilingue nasce dal fatto che, sempre se ho capito bene, alcune sezioni avranno le lezioni in inglese, altre in italiano: se è così, il liceo offre un’educazione in due lingue, ma il singolo studente riceve una formazione monolingue).

Rispetto al progetto del Politecnico, mi è meno chiaro quanto possano essere proficue le lezioni in inglese in un liceo frequentato quasi esclusivamente da italiani. E non mi è chiaro quanto approfondite siano le conoscenze della lingua inglese del corpo docente. Ha detto la dirigente a «Repubblica»: «a cominciare dai prossimi giorni, per due anni di fila, più della metà dei professori che già lavorano nella scuola frequenterà ogni settimana corsi intensivi di perfezionamento, di conversazione e scrittura. La risposta degli insegnanti è stata inaspettata, assicura la dirigente: hanno bussato alla porta della presidenza in trenta per autocandidarsi, su cinquanta nomi che compaiono all’interno dell’organico. Docenti di greco e di storia dell’arte, di filosofia e di scienze. Dovranno raggiungere come minimo una certificazione di livello “b1” per poter far parte del nuovo programma di lezioni».

Spero che la giornalista di «Repubblica» si sia espressa male, e che il B1 sia il livello minimo richiesto agli insegnanti per poter accedere ai corsi di lingua inglese. Ma il testo non è stato scritto benissimo. Ricordo quali sono le competenze classificate con il livello B1 del «Quadro comune europeo di riferimento per le lingue»: «È in grado di capire i principali punti di un chiaro input linguistico di tipo standard su contenuti familiari regolarmente incontrati al lavoro, a scuola, nel tempo libero ecc. Sa cavarsela in molte situazioni durante un viaggio in un paese dove sia parlata la lingua oggetto del suo apprendimento. Sa produrre semplici testi dotati di coesione su argomenti che gli sono familiari o che sono di suo interesse. Sa descrivere esperienze e eventi, sogni e speranze, ambizioni, e esporre brevemente ragioni e spiegazioni per opinioni e progetti». Pochino per poter formare dei giovani.

Indipendentemente da questo probabile equivoco, il rischio è che dal liceo classico «Tito Livio» escano studenti che masticano più o meno bene l’italiano e l’inglese, ma che non sanno dominare pienamente né l’una né l’altra lingua, e che hanno minori capacità di comprensione e produzione di testi elaborati rispetto ai loro coetanei. Insomma, che dal grande liceo milanese escano dei «deprivati verbali», per usare una vecchia espressione degli anni Settanta.

Spero vivamente che i fatti mi diano, tra qualche anno, torto. Ma il rischio c’è. C’è, però, anche una certezza: i diplomati del liceo  «Tito Livio» scriveranno  certamente meglio di chi in «btb oresette», che si presenta come «quotidiano online per l’innovazione delle piccole e medie imprese», ha dato notizia del progetto del loro liceo: «È questo il proposito del liceo classico Tito Livio di Milano, che ha in programma di diventare bilingue: le materie verranno spiegate anche in lingua anglofona, dalla matematica alla filosofia, passando per le già citate lingue di Seneca e Socrate». Credo che non sia necessario un commento di questo pessimo prodotto in lingua italofona.

Bilinguismo a scuola o deprivazione verbale?ultima modifica: 2015-09-02T02:02:36+02:00da cortmic
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2 pensieri su “Bilinguismo a scuola o deprivazione verbale?

  1. Capisco le tue osservazioni.
    Ma non saprei farne una questione generale.
    Mio figlio, italiano, frequenta la scuola inglese: monolingue, quindi, in una lingua che non è la sua, con le sole lezioni di italiano in italiano.
    Anche nel suo caso la maggior parte degli studenti è italiana: la differenza, cruciale rispetto alle tue osservazioni, è che gli insegnanti sono madrelingua, quindi l’inglese lo parlano bene.
    Alla fine di ogni anno fa gli esami sulle materie studiate: in italiano. E’ in questa lingua che il sistema scolastico italiano giudicherà la sua preparazione.
    Lui, per ora, è contento: io pure. Non penso che sarà deprivato in nulla: al contrario. Nemmeno in italiano. O, quanto meno, quello che guadagna mi pare tuttora molto superiore a quanto perde.
    E’ il bello della società plurale: c’è spazio per scelte differenziate. Mi pare che, dopo tutto, la cosa principale sia questa: che sia possibile scegliere. Il che mi dice qualcosa anche sulle politiche scolastiche in generale…

  2. Se non si è di madrelingua, anche con il livello avanzato C2 diventa difficile insegnare una materia. Non si tratta solo di padroneggiare l’inglese e conoscere la terminologia ma anche di sapere usare la fraseologia, che difficilmente si può imparare da un libro o in qualche ora di corso di aggiornamento: anche le espressioni più banali come 2:10=4:20 diventano complesse e temo lezioni in inglese maccheronico in cui l’insegnante dice “2 stays to 10 like 4 stays to 20”.

    Eppure pare proprio che il MIUR ritenga che un livello infimo come il B1 possa essere sufficiente (fonte: http://www.orizzontescuola.it/news/miur-costretto-ad-abbassare-requisiti-competenza-linguistica-insegnare-clil-c1-b1). Mi domando che competenze abbia chi prende decisioni del genere, ma non dovrei stupirmi: la versione in inglese della presentazione di La buona scuola è piena di errori di traduzione e nel sito dei MIUR si trovano molti anglicismi usati impropriamente o con errori di ortografia.

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