All’interno della trasmissione c’è una rubrica, Accademia d’arte grammatica, affidata periodicamente a linguisti diversi, nella quale l’esperto di turno risponde ai quesiti degli ascoltatori. Per alcune puntate le risposte le ho date io. Tutta la trasmissione è recuperabile, e scaricabile, nel sito della RAI. Ho pensato, tuttavia, di riportare anche nel blog il testo delle mie risposte, ripulito dei colloquialismi e dei lapsus che talvolta produciamo quando parliamo, anche di cose serie e anche dopo che ci siamo preparati. Ma chi vuole sentire la versione orale, lapsus compresi, può ricorrere al podcast.
Andrò a ritroso, cominciando dalla puntata di ieri, 17 maggio 2014, l’ultima alla quale ho partecipato, almeno per quest’anno (il podcast è, per chi lo voglia, già in rete).
Questo uso di gli è costante nella storia dell’italiano. È presente negli autori del Trecento. L’ha usata, per esempio, Boccaccio nel Decameron, dove si legge: «Ma poi che con loro in piacevoli ragionamenti entrata fu… essa piacevolmente donde fossero e dove andassero gli domandò» e non «piacevolmente donde fossero e dove andassero domandò loro».
L’italiano normativo, nel corso dei secoli, ha cercato di distinguere il singolare dal plurale, utilizzando gli nel primo caso e loro nel secondo: gli ho detto se parlo di mio fratello, ho detto loro se parlo dei miei amici. Ma loro si distingue in modo radicale dagli altri pronomi dativi: è bisillabo, tonico, posposto, mentre mi, ti, gli, le sono monosillabi, atoni, preposti. Insomma, loro non funziona bene rispetto al paradigma generale dei pronomi dativi italiani.
Quindi, la risposta a Marco è: sì, gli plurale è accettabile; e, direi, nei contesti meno formali (che so, al bar o tra gli studenti in attesa dell’inizio delle lezioni) è d’obbligo.